Umani o androidi? L’importante è tradurre

Siamo giunti alla quarta e ultima puntata di questa rubrica che ci ha accompagnato durante tutto quest’anno. L’obiettivo era farvi vedere la traduzione sotto prospettive diverse e inaspettate. Spero quindi che Giacomo Pezzano sia riuscito a farvi riflettere a farvi uscire dagli schemi, anche perché sennò che filosofo sarebbe? Colgo l’occasione per ringraziarlo nuovamente per questi articoli, scritti tra i suoi vari impegni e che ha curato sempre con la massima attenzione.

Vi confesso che l’idea della rubrica mi è piaciuta molto e dato che il Natale si avvicina inizio anche a pensare ai desideri per l’anno nuovo. Mi piacerebbe molto avere un’altra rubrica sul blog, stavolta magari qualcosa di più pratico, chissà che il desiderio non si avveri.

Vi lascio a quest’ultimo interessante spunto in cui si parla di traduzione di immagini e grazie al quale ci rendiamo sempre più conto di quanto l’AI stia diventando (o è già diventata) parte integrante della nostra vita quotidiana.

Buona lettura!

Ma gli androidi traducono immagini?

 

Blade runner”: che pessima traduzione! Come si sa, il titolo originale del racconto di Philip Dick è infatti “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”.

Oggi, è diventato persino banale chiedersi “ma gli androidi traducono?”: GoogleTranslate risponde di sì, e lo fa con sempre maggiore convinzione, ci piaccia o meno. Perché è troppo facile dire che GoogleTranslate non traduce dal giapponese all’italiano come Antonietta Pastore: non è anche vero che, lei ci perdonerà, Pastore non traduce dal punjabi, tedesco, hindu, lituano, latino, telugu, hmong, … all’italiano come GoogleTranslate? Esiste poi da qualche parte un vero traduttore umano dal telugu all’italiano? Nel caso, desidero conoscerlo.

Ma gli androidi, si sa, sono fatti per esagerare sempre di più: si stanno dedicando anche alla traduzione di immagini!

Sì, avete letto bene: traduzione di immagini. Che cosa significa?

Intanto, significa qualcosa che dopo quattro puntate di questa piccola rubrica abbiamo imparato a riconoscere: la traduzione è ovunque, o quantomeno si trova anche al di fuori delle parole, quasi sparsa qua e là per il mondo. Esageriamo: la sintesi clorofilliana non è in fondo una traduzione della luce del sole?! Insomma, la traduzione si traduce in molti modi.

Si possono dunque tradurre anche le immagini, ed è uno dei compiti più particolari delle intelligenze artificiali, che in questo modo forse ci insegnano che innanzitutto noi stessi siamo anche dei traduttori di immagini.

Andiamo però con calma: apriamo il nostro account Instagram, proviamo a caricare una qualsiasi foto e subito ci troviamo di fronte alla scelta capitale del filtro. Questo gesto ormai banale, comporta un’elaborazione sofisticata da parte del software, che appunto, passando da un filtro a un altro, traduce ogni volta un’immagine in un’altra, in modo più o meno felice.

Capita che, a un certo punto, l’immagine iniziale sembri quasi irriconoscibile: traduzione errata da cestinare!

Oppure, traduzione errata felice, perché ha migliorato la nostra immagine al punto da farla sembrare una bella foto! Vai, la pubblico!

Eccoci subito al confine mobile di ogni traduzione, in cui anche un AI inciampa quando si cimenta nella modifica di immagini: ripete o altera? Riproduce o modifica? In un modo o in un altro, se si ha a che fare con una traduzione, ci troviamo presi nella solita apparente morsa in cui da un lato preme la fedeltà, dall’altro l’infedeltà: non riusciamo a liberarci!

Ma non è forse un po’ troppo dire che un AI traduce immagini?! Ditelo a quei programmatori che instancabilmente consumano i propri neuroni con quegli algoritmi che si cimentano nella cosiddetta image translation.

Ecco che incontriamo algoritmi che traducono il viso di un uomo in quello di una donna, o viceversa, ma anche algoritmi che traducono immagini di giornate di pioggia in immagini di giornate di sole, immagini estive in immagini invernali, o viceversa.

E non è certo finita: troviamo algoritmi che traducono delle serie di immagini diverse per creare un vestito o uno stile, algoritmi che traducono espressioni facciali di tristezza in altre di gioia, algoritmi che traducono abbozzi e schemi di oggetti in loro immagini strutturate. Insomma, abbiamo algoritmi che traducono immagini di vario tipo, al limite della contraffazione e manipolazione!

Affascinante, eppure anche inquietante: non abbiamo a che fare, nel migliore dei casi, con il rischio di una proliferazione di fake? Come non bastasse, siamo proprio noi, con tutte le immagini che produciamo, ad allenare la AI a tradurre, magari a nostra insaputa: ogni volta che ci stupiamo di quanto splendidamente i nostri nuovi smartphone correggano in tempo reale i difetti delle nostre fotografie, lì dobbiamo anche renderci conto che stiamo potenziando a loro capacità di mentire!

Conclusione: gli algoritmi sono dei pessimi traduttori, perlomeno con le immagini, non bisognerà mai fidarsi di loro, sono peggio degli amanuensi di un tempo che manipolavano intenzionalmente i testi per nascondere qualcosa! Affidare un’immagine a un AI equivarrebbe ad aver affidato la traduzione russa di 1984 di G. Orwell ai funzionari dell’URSS!

Nessuno verrà convinto da tutto ciò a liberarsi per sempre di telefono, tablet, PC, per fortuna.

Dobbiamo infatti fermarci dal trarre conclusioni troppo affrettate, e anzi approfittiamone per imparare qualcosa su di noi, come sempre facciamo dalle “macchine”.

Guardiamoci allo specchio (artificiale): non siamo proprio noi i maestri della simulazione, i maestri della contraffazione tramite la traduzione, anche con le immagini?

Prendiamo un algoritmo di una driverless car, tutto occupato a tradurre un’immagine “reale” di una giornata assolata in un’immagine “irreale” di una giornata nevosa: lo fa per poter guidare come se ci fosse il sole anche quando c’è la neve, per “sapere” come guidare nel caso in cui ci fosse la neve e le condizioni di visibilità fossero diverse, cioè decisamente più avverse.

Noi simuliamo proprio in maniera analoga, ogni qualvolta traduciamo una situazione reale in altre possibili situazioni, per figurarci e immaginarci che cosa potrebbe accadere, che cosa “accadrebbe se…” e valutare che cosa potremmo fare in quel caso, in quei casi.

Tutta la nostra gloriosa immaginazione, in fondo, è un’operazione continua di traduzione di immagini: che cosa capiterebbe o potrebbe capitare, se…?

È questa la lezione da imparare: siamo dei sofisticati traduttori di immagini, anche se forse non ci avevamo mai fatto caso, o non ci facciamo abbastanza caso durante le nostre giornate. È per questo che ci ritroviamo a poter sognare, noi sì!, delle pecore elettriche, anche se non esistono, anche se non ne abbiamo mai vista una.

Anzi, noi possiamo sognarla una pecora elettrica e poi costruirla, traducendo persino un sogno in realtà. Non è proprio questo il trionfo della contraffazione? Non è questa la nostra rivincita su quell’algoritmo che sembrava il maestro della truffa? Non ci fregano così facilmente a noi, insaziabili animali traduttivori

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