Traduzione e filosofia: mediatori di professione

Rubrica n. 3

L’autunno è ufficialmente arrivato, e si sa l’autunno ormai è il vero inizio dell’anno. C’è chi torna in ufficio e c’è chi torna sui banchi di scuola, e in questo terzo appuntamento della rubrica “Traduzione e filosofia” parliamo proprio di chi a scuola ci lavora, ovvero gli insegnanti.

Apparentemente non c’è nessun nesso tra un traduttore e un insegnante, ma il nostro amato filosofo, Giacomo Pezzano, ha trovato una chiave interpretativa che io condivido in pieno. So che molti traduttori – io per prima – sono anche insegnanti, quindi penso che questa riflessione sulle pratiche del tradurre e dell’insegnare possa far capire quanto è culturalmente importante quello che facciamo. Buona lettura.

 

L’insegnante, traduttore mascherato

 

Settembre, una storia già vissuta: si dice ciao alle vacanze e ci si rituffa nella scuola. Questo ovviamente vale per gli studenti, ma anche per gli insegnanti. Cioè per quegli strani traduttori mascherati.

Sì, gli insegnanti sono dei traduttori mascherati: mascherati perché nessuno fa caso al loro lavoro di traduzione. Soprattutto quando sono bravi, come ogni vero traduttore.

Ma perché sono appunto dei traduttori?

Nelle precedenti puntate di queste incursioni para-filosofiche nella traduzione, abbiamo scoperto che – se guardiamo bene – si trova traduzione un po’ ovunque, persino nelle cover musicali. Ora scopriamo che la traduzione si annida anche nella quotidianità di insegnanti, docenti, professori, maestri, …

Ormai, non è raro che i docenti vengano descritti come dei mediatori, e questo significa innanzitutto una cosa molto semplice: il fulcro dell’insegnamento si è spostato dalla didattica all’apprendimento. Insomma, conta non solo il “che cosa si insegna”, ma il “chi (e come) apprende”: i cosiddetti contenuti disciplinari (le “materie”) devono fare i conti con quelli che una volta erano considerati come dei semplici “contenitori”, gli studenti.

Proprio per questo, l’insegnante è ormai chiamato senza mezzi termini a diventare un mediatore: si trova nella (s)piacevole situazione di danzare tra la conoscenza di una serie di nozioni o procedure di una qualche disciplina, che deve evidentemente insegnare ovvero trasmettere, e la presenza di persone che presentano bisogni, caratteristiche e istanze peculiari, che non possono essere ignorate.

Ecco allora che un insegnante deve mediare tra ciò che deve pur sempre insegnare e la rilevanza e la vicinanza che un insieme di contenuti può avere per quelle specifiche persone che si trova davanti.

Forse, sarebbe meglio dire che un insegnante dovrebbe mediare: (purtroppo) capita ancora troppo spesso che gli insegnanti si preoccupino esclusivamente del primo aspetto, come se le conoscenze specifiche di una disciplina fossero statiche e inscalfibili, indipendentemente da quello che succede nel mondo, da ciò che si può fare con tali conoscenze e – soprattutto – dal modo in cui si queste incontrano con gli studenti.

Un insegnante media proprio nel momento in cui si preoccupa non solo di trasmettere quello che sa, ma anche di fare attenzione a chi lo sta trasmettendo. Sembra banale, sembra facile, sembra scontato (nel mondo ideale): non lo è affatto (nel mondo reale).

Quanti insegnanti abbiamo trovato lungo il nostro percorso che sapevano tutto, ma proprio tutto, eppure non erano capaci di lasciare il segno? Quanti insegnanti abbiamo trovato lungo il nostro percorso che sembravano quasi amici, eppure le loro conoscenze e competenze non riuscivano a lasciare il segno? Mediare è facile a dirsi, ma molto più raro e complicato di quel che si pensi, ed è quello che un buon in-segnante sa fare: saper mediare permette di lasciare il segno.

Saper tutto non basta; essere dei mostri di simpatia non basta. Né la soluzione è sapere tutto ed essere dei mostri di simpatia insieme, perché – anche fosse possibile – serve proprio qualcosa di diverso, un’attitudine diversa: quella del traduttore.

Un traduttore, in fondo, è tanto più bravo quanto è più sensibile e ricettivo alle sfumature, non quante più cose sa e quante più conoscenze accumula: un buon traduttore è capace di ascoltare più voci al contempo, perciò riesce a farle quasi cantare all’unisono. Paradossalmente, non ha una voce propria, ma proprio per questo riesce a fare incontrare le voci altrui.

E così un insegnante. È tanto più bravo quanto più riesce ad agire quasi come un sismografo: attento a ogni piccolo smottamento della disciplina e degli studenti, a quelle piccole crepe, nell’una come negli altri, che possono creare degli attraversamenti, che anzi richiedono dei ponti. Ponti, in questo caso, invisibili, ma decisamente efficaci.

Un traduttore sta sempre nel mezzo, con un piede in due scarpe: cerca la giusta parola, in grado di rendere giustizia a entrambe le lingue che sta facendo incontrare attraverso il proprio lavoro. Se si concentra solo sulla supposta fedeltà all’“originale”, traduce male; se si concentra solo sulla supposta fedeltà al “derivato”, traduce male.

E così un insegnante, preso dal tentativo di per far passare qualcosa di quello che sa a qualcuno. Se si concentra solo sul rigore dei contenuti ovvero sul mondo della sua disciplina, insegna male: se si concentra solo sull’effetto-show ovvero sul mondo dei suoi studenti, insegna male. Deve trovare il modo giusto di insegnare quel dato contenuto a quei dati studenti: deve saper tradurre.

Conclusione? Insegnanti, ricordatevi di andare a scuola dai traduttori!

 

Lascia un commento