Traduzione: un’altra prospettiva

Riflessioni diverse

Finalmente è arrivato il momento della rubrica di cui vi avevo parlato a gennaio. Non vedevo l’ora di farvela leggere! Vi presento la prima rubrica di TRADZ.

Quando il mio amico Giacomo mi ha parlato di questi articoli che aveva scritto, ho pensato subito che erano perfetti per fare una rubrica, era l’occasione per parlare di qualcosa che non si vede spesso sui blog di questo settore. Di certo trattare gli aspetti tecnici e pratici è fondamentale perché riguardano la nostra quotidianità, ma ci fermiamo mai a riflettere su cosa significhi veramente tradurre?

In questa rubrica si parlerà dunque della traduzione da una prospettiva più ampia, saranno quattro appuntamenti tutti da leggere per arrivare alla conclusione finale. Prima di lasciarvi alla lettura è mio dovere presentarvi l’autore, un filosofo nonché caro amico, Giacomo Pezzano.

Dottorando presso il Consorzio Filosofia Nord Ovest (FINO, Università di Torino) e abilitato all’insegnamento nelle scuole secondarie di secondo grado. Ha insegnato scrittura argomentativa presso l’Università degli Studi di Torino (2011-2014, Dipartimento di Studi Umanistici); dal 2010 collabora con il Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo di Cuneo. È segretario della rivista “Lessico di etica pubblica” e membro di redazione della rivista “Thaumazein”. Ha pubblicato e curato libri e articoli sulla filosofia contemporanea, sul paradigma dell’antropologia filosofica, sul rapporto tra filosofia e immaginari sociali e sul pensiero metafisico di Gilles Deleuze. Attualmente si sta concentrando sui problemi connessi a concetti quali quelli di relazione, trasformazione e processualità. La sua pagina web è http://unito.academia.edu/GiacomoPezzano.

Anche se lui preferisce definirsi così: “Giacomo Pezzano (1985). Animale umano come tutti (con forse qualche domanda in più di altri)”.

 

In origine, la traduzione (I)

Il primo traduttore della storia, lo sappiamo, è stato un certo Hermes, che aveva dei datori di lavoro abbastanza importanti.

Infatti, ricopriva un ruolo a cui in fondo molti aspirano, più o meno apertamente: essere messaggero degli dèi (i pochi che non vi aspirano, ovviamente, è perché puntano direttamente a essere dèi). È vero, avendo come padre tale Zeus (il Berlusconi di quei tempi), era sufficientemente raccomandato, ma – ho il vago sospetto – nessuno sarà davvero sorpreso di questo.

Per cominciare, che cosa ci dice la storia di Hermes? (va da sé, la sto traducendo)

In parole povere, Hermes è una sorta di postino di alto borgo: fa da tramite veicolando i messaggi di A a B, di B ad A, di A a C, e così via. Ha le mani un po’ in pasta ovunque, sa tutto di tutti, eppure non sa e non ha nulla di proprio: è un puro mediatore. Ma non si tratta di un compito agevole, come facilmente possiamo immaginare: servono raffinati doti di interprete per riuscire a far comunicare persone e contenuti tanto disparati. Per questo, Hermes sarebbe addirittura il padre del linguaggio, della parola e della razionalità, perché – alla fin fine – è solo comunicando tra di noi che possiamo diventare intelligenti.

Ampliando lo sguardo, Hermes comparirebbe ogniqualvolta che ci si imbatte in un passaggio, uno scambio, un attraversamento, un trasferimento, un transito, un superamento, un commercio, ossia più in generale un qualche tipo di mutamento. Che non per forza è pacifico: può per esempio presentarsi come violazione, tradimento o truffa. Insomma, è vero che Hermes deve essere affidabile e fedele, ma allo stesso tempo sembra che possa sforzarsi di esserlo soltanto al prezzo di un rischio costante di rivelarsi inaffidabile e infedele. Si sa, il rischio di esagerare, come di essere troppo ermetici, fa parte del gioco della traduzione.

Non sorprende allora che, tra le tante cose, Hermes si presenti come gentilmente astuto: è acuto, ma dai modi dolci; è intelligente, ma delicato. Come ogni mediatore che si rispetti, insomma, è uno che ci sa fare.

Ora, la storia di Hermes è interessante per almeno due motivi: primo, ci fa capire benissimo come funziona davvero una traduzione; secondo, ci fa vedere altrettanto bene che tendiamo a sminuire un po’ ingenerosamente l’importanza della traduzione.

Primo. La traduzione è una faccenda profondamente creativa, in cui ciò che sembrerebbe essere un semplice mezzo inerte di trasmissione (il traduttore), in realtà gioca un ruolo attivo e decisivo. Ma attenzione: non solo perché “ripetere” il messaggio di A a B (e poi viceversa) significa dire sì quella cosa (non un’altra!), ma in maniera tale che B possa comprenderla. C’è infatti dell’altro: è proprio grazie al lavoro di “spola” (di tessitura) di Hermes che tanto A quanto B riescono a capire sempre meglio ciò che si sforzavano di dire, ossia che articolano in modo sempre più ricco ciò che intendevano significare. Senza Hermes, alla fine, non solo non capirebbero l’altro, ma nemmeno se stessi.

Sembra una cosa molto complicata, ma avviene ogni volta che un traduttore si mette al lavoro: tradurre, per esempio, dall’italiano all’inglese significa ovviamente fare attenzione a ciò che il testo “originale” dice, ma anche – soprattutto in quei casi in cui non esistono traduzioni già assodate (tipo “gatto = cat”) – a ciò che la lingua che deve “accogliere” quel significato consente di dire. Un lavoro decisamente da artigiano: serve la “forma giusta”. Eppure c’è di più: quando si traducono espressioni intricate in inglese, si sta di fatto riarticolando anche la potenza espressiva dell’italiano, che a propria volta “riaccoglie” quelle sfumature o quei significati ora messi in luce dalla “ripetizione” inglese.

artigiano-delle-parole

Facendola breve, alla fine della fiera tradurre vuol dire esprimere.

Secondo. Infatti, la parola hermeneia (da cui ermeneutica) significava innanzitutto proprio espressione, ed è questo l’altro aspetto che Hermes ci rivela, se non ci fermiamo alla storia dei messaggi: traduzione si dice in molti modi, non si traducono solo le lingue. Si traduce ogni volta che ci si deve inventare un passaggio, insomma.

Questo la semiotica lo ha detto da tempo, arrivando per esempio a distinguere tra tre tipi di traduzione.

A) La traduzione intra-linguistica. È abbastanza blanda, sulle prime: è la ricerca di un termine B sinonimo del termine A all’interno di una medesima lingua, ossia la definizione di una parola. Certo, fa un po’ ridere pensarla come “traduzione”: eppure, com’è che cercando il significato di un termine o una radice in un dizionario talvolta si comincia trovando un senso e si finisce trovandone un altro, o persino il suo opposto? Oppure, com’è che il significato di una parola cambia nella storia di una stessa lingua, o anche nelle varie declinazioni dialettali o regionali? O, ancora, com’è che ogni sinonimo aggiunge una sfumatura di senso e una tenue trasformazione semantica, anziché tracciare una semplice? In fondo, ciò che dovrebbe custodire un’identità (come una parola, un nome, una voce, ecc.) è attraversato da un costante processo di alterazione, per lo più impercettibile nel suo corso, ma non per questo ineffettivo, perché anzi è il principio di produzione del significato. Ci pensate a quanto sarebbe noioso il mondo se “simpatico” avesse sempre significato la stessa cosa?

B) La traduzione inter-linguistica. È la traduzione comunemente intesa: trasporre un termine A della lingua X in un termine B della lingua Y, per capirci. In genere, ciò che per noi è traduzione si ferma qui, e non ci colpisce più di tanto, al punto che (diciamocelo), a meno che non siamo direttamente chiamati in causa o mossi da solidarietà “corporativa”, prestiamo ben poca attenzione a chi abbia tradotto un testo. E non è che siamo cattivi per questo: è proprio che la traduzione funziona in questo modo, ossia come un’invisibile mediazione creatrice (attenzione: invisibile non significa da non pagare).

(Esperimento: quali sono i vostri tre scrittori stranieri preferiti? Conoscete anche i nomi dei loro traduttori?)

C) La traduzione inter-semiotica. È forse la più interessante: la trasmutazione da un linguaggio a un altro, o – più precisamente – il passaggio da un registro semiotico a un altro. Traduco: la trasposizione di un libro in un film, ma anche un pensiero o un’emozione che si traduce in azione, per intenderci. Ed è qui che cominciamo a notare la ricchezza e la forza della traduzione: non si tratta semplicemente di far passare qualcosa da un elemento a un altro, di farlo transitare tra una cosa e un’altra, bensì di “trasfigurare” in modo creativo un senso, un’esigenza espressiva.

Tradurre un libro in un film, per esempio, non significa solo “seguire la storia”: significa dire quello che dice un libro adottando un diverso mezzo espressivo, significa che nel libro c’era qualcosa che “premeva” per essere detto cinematograficamente, cioè diversamente. E poi, è vero che il film può risultare più o meno riuscito anche in base a quanto è fedele alla trama del libro, ma allo stesso tempo – quando è un bel film – mette in risalto aspetti che sono del libro ma che non sono nel libro, o ci fa addirittura venire voglia di rileggere il libro con occhi nuovi, per trovarci cose che ci eravamo persi.

Dove voglio allora arrivare? Semplicemente qui: la traduzione è un po’ come l’aria che respiriamo, ci anima e vivifica senza farsi troppo vedere, ma essendo appunto ovunque.

E quindi, a che cosa ci serve tutto questo?

Beh… lo scoprirete nelle prossime puntate!

 

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